Negli ultimi dodici mesi due studi di commercialisti hanno assunto due rappresentanti della comunità cinese. Nello stesso periodo circa quaranta cinesi hanno partecipato ai corsi di formazione o di lingua organizzati dall'amministrazione comunale, dalle associazioni e dai sindacati del settore tessile. Per chi è abituato a lavorare 15 ore al giorno, in un garage di 4 mq, il più delle volte in clandestinità, e sempre con la sensazione di essere un "untore" in un distretto ormai in crisi da anni, non sono numeri da poco. Ora che il peggioramento del settore ha investito anche le piccole attività per conto terzi, e quindi anche quelle asiatiche, questi risultati assumono un'importanza ancora maggiore.
Segnali importanti anche per politici, amministratori e imprenditori autoctoni che per troppo tempo hanno guardato all'"invasione cinese" con sospetto. «Non dobbiamo essere ipocriti – ragiona Hao Xu, 47 anni, mediatore culturale e segretario Associazione italiana italo-cinese di Modena – l'imprenditore cinese che si lascia convincere da connazionali a trasferirsi in Italia lo fa perché è convinto di fare fortuna. Poi rimane coinvolto in una realtà di sfruttamento, dove si trovano protagoniste anche aziende italiane che impongono prezzi tirati, false fatturazioni, ritardi nei pagamenti».

Per comprendere la storia – l'arrivo, l'insediamento e ora anche il ridimensionamento – delle imprese cinesi nell'area Nord di Modena conviene partire dalle dimensioni che ha raggiunto il fenomeno. Dal 2005 al 2008 – secondo i registri della Camera di Commercio – le imprese straniere (quasi tutte cinesi) operanti nel distretto modenese del tessile abbigliamento sono passate da 233 a 349, dal 13,8% sul totale delle imprese del settore al 205,5. A Carpi la percentuale si abbassa al 7,9 (92 aziende) e si alza a Mirandola (63%), San Possidonio (58,9%), Cavezzo (55,9), Novi (45,2) e Concordia (43,8). Oltre il 52% di queste aziende non ha più di tre anni di vita; solo l'1% ha più di dieci anni d'anzianità.
Di fronte alla stasi di imprese autoctone, gli imprenditori cinesi hanno saputo proliferare e – pur con sistemi socialmente discutibili – affermarsi, in particolare nella subfornitura. Come hanno riassunto alcuni anni fa i tecnici del Consorzio Spinner dell'Emilia-Romagna (www.provincia.modena.it/sociale/allegato.asp?ID=33401) la nascita di nuove imprese cinesi, la presenza e l'accumulo di capitali propri (spesso estranei e non integrati al sistema finanziario locale), uniti ad una sorta di non-visibilità sociale, hanno fatto nascere timori tra gli imprenditori locali, nei sindacati e nelle associazioni. «Occorrerebbe tuttavia evitare – si legge nel report – l'ipocrisia di utilizzare i benefici provenienti dal contatto con le imprese cinesi (ad esempio, intermini di consistenti affitti percepiti in cambio di locali fatiscenti, o di contenimento di costi e di elevata flessibilità produttiva), lamentandone poi la scomoda presenza».

Ma, come dicevamo, la crisi ora ha cominciato a ferire i laboratori asiatici. «In tanti hanno lasciato Carpi per spostare la propria attività nella bassa Lombardia, dove gli immobili arrivano a costare anche il 50% in meno e gli affitti sono meno cari – spiega Stefano Cestari, direttore di Lapam Federimpresa dell'Area Nord di Modena –. Sicuramente le imprese cinesi non crescono più come prima, anche se sono aumentate, secondo i dati della Camera di Commercio, le partite iva: a questi nuovi liberi professionisti, magari finora impiegati in qualche laboratorio di amici o parenti, viene rinnovato il permesso di soggiorno per due anni», in attesa di una eventuale ripresa del mercato.
Secondo l'Osservatorio del settore tessile-abbigliamento realizzato da R&I srl, nel 2008 nelle imprese straniere presenti nel distretto operano circa 1.200 cinesi; a questi andrebbero aggiunti circa altri 800 lavoratori che rimangono nel sommerso. Chi ha deciso di rimanere in Italia, ha capito negli anni di doversi integrare sul territorio; se a livello culturale è ancora difficile promuovere scambi con gli italiani, almeno a livello professionale sono stati fatti degli importanti passi avanti: «I corsi di formazioni o quelli legati alla sicurezza – continua Cestari – sono sempre più frequentati. In alcuni studi di commercialisti, poi, sono stati assunti dei cinesi, per poter andare incontro meglio alle richieste e alle esigenze degli artigiani».

Davanti all'attuale congiuntura anche gli sbocchi per le imprese straniere si riducono. Tanti piccoli artigiani hanno quindi deciso di diversificare la propria attività in Italia, chi nel vicino distretto del biomedicale, chi nel settore della meccanica e anche chi nella lavorazione della piastrella.
Il racconto di chi vive in stretto contatto con la comunità cinese dà l'idea della "rivoluzione" in corso.
«In questo ultimo anno le aziende cinesi hanno lavorato pochissimo, perché sono ferme anche le grandi imprese dell'abbigliamento – spiega Hao Xu –. Da fine febbraio il lavoro è praticamente fermo, anche se abbiamo notato una leggera ripresa in queste ultime settimane. Visto l'andamento del settore, molti vecchi titolari cinesi, quelli che sono venuti per primi a Carpi, hanno deciso di tornare nel proprio paese e di lasciare qui qualche amico o parente a gestire il laboratorio. In Cina probabilmente hanno più possibilità di investire anche in altri settori».

 

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